Oggi la mia radio preferita dedica ogni programma alla memoria di Carlo Dickens, nel duecentesimo anniversario della sua nascita.
Da quando il programma del liceo non mi ha più imposto di farlo, ho letto con grande piacere i libri di Dickens: i “facts, facts, facts” di Tempi Difficili, la vita lacrimevole di Oliviero Twist sono letture che mi hanno fatto ridere e pensare (piangere no, perché non sono incline).
Il libro che più mi ha appassionato è però il resoconto meraviglioso, assurdo ed esilarante delle avventure di Pickwick.
Curiosamente, a questa imponente lettura associo nella mente il viaggio in Cile che feci appena laureato; M. mi regalò i due grandi, vecchi volumi di carta velina, forse proprio in occasione della laurea, e quando partii per il Cile decisi che avrei avuto abbastanza tempo per dedicarmi alla lettura (lì le distanze sono immense, e ci muovevamo in autobus).
Del resto all’epoca si era diffusa la moda, per chi appena laureato passava le giornate alla ricerca di un lavoro, di cimentarsi con letture colossali: più d’uno lesse Anna Karenina, o Guerra e Pace o Il signore degli Anelli.
Io scelsi Picwick, e fu meraviglioso: una traduzione elegantissima, le battute incomprenisbili di Sam Weller (ho appena scoperto che hanno dato il nome a una nuova parola: wellerismi), le descrizioni della vecchia Inghilterra, il linguaggio pomposo e divertente mi condussero in un viaggio parallelo: ero In Cile nel 2004 e nella campagna inglese nel 1830.
Allora capii come Faceva Salgari a scrivere delle Tigri della Malesia senza muoversi dalla collina di Torino.
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